RICERCA PER CASATO

Il Dopogara della Sinistra Italiana tra Crollo di Consenso e Miopia Strategica

L’Italia ha votato ancora una volta,  e come ormai accade da anni, la sinistra ha perso male, nettamente, senza appello. E il fatto più inquietante non è solo la sconfitta in sé, quanto la reazione che ne è seguita.  Nessuna vera autocritica, nessuna consapevolezza profonda del perché un tempo non troppo lontano rappresentasse le speranze della maggioranza e oggi sia ridotta a rincorrere a fatica percentuali a doppia cifra.

Il Partito Democratico, nonostante qualche segnale di tenuta, è lontano anni luce dall’essere percepito come forza di governo capace di ispirare fiducia e cambiamento. La segreteria di Elly Schlein ha provato a imprimere un’identità diversa, più radicale nei diritti, più femminista, più ambientalista, ma ha fallito nel tentativo di riconnettersi con il paese reale. Non basta una svolta simbolica, quando si esce dai palazzi romani e si entra nelle periferie urbane, nei paesi del Sud, nei quartieri popolari, si capisce che quel linguaggio non arriva, anzi viene rigettato.

Ciò che colpisce è la distanza abissale tra la sinistra istituzionale e le esigenze della società, non si tratta di “comunicazione sbagliata”, come spesso si ripete per deresponsabilizzarsi, è il contenuto che manca. Si parla a una fetta ristretta e privilegiata di cittadini, a un pubblico colto, urbano, cosmopolita, e si dimenticano completamente le persone che vivono con ottocento euro al mese, che attendono un treno per ore, che non trovano un medico di base, che hanno figli disoccupati o emigrati. In quei contesti, parlare di inclusività o transizione ecologica senza spiegare cosa significhi in termini concreti, quotidiani, è come parlare in sanscrito.

E mentre la sinistra si arrovella su identità, simboli e alleanze ipotetiche, la destra avanza, perché ha capito che la semplificazione è un’arma potentissima. Slogan chiari, proposte dirette, presenza costante nei media e nei territori, dimostrando coerenza narrativa. Giorgia Meloni ha saputo capitalizzare il malcontento con una proposta netta, giusta o sbagliata che sia mentre la sinistra appare ogni volta incerta, impacciata, divisa, e incapace di dire una parola forte su qualsiasi tema strategico.

Le divisioni interne restano una delle piaghe croniche, ogni tornata elettorale riapre la discussione sul cosiddetto “campo largo”, un’idea affascinante sulla carta ma fallimentare nella pratica. Un’alleanza vera tra PD, Movimento 5 Stelle, Verdi, Sinistra Italiana e altre formazioni sarebbe possibile solo se esistesse una visione comune, una cultura politica condivisa, una leadership capace di mediare e tenere insieme le anime diverse. Invece, si assiste al solito teatrino di distinguo, accuse incrociate, gelosie di bottega e tatticismi miopi.

Grava poi su questa area politica un peccato originale mai risolto, la presunzione di suoperiorità, che per troppo tempo la sinistra ha pensato di esternare. Questo atteggiamento, ben radicato anche in buona parte del suo elettorato storico, ha prodotto un’arroganza sottile ma costante, che ha allontanato milioni di cittadini. In democrazia non si vince convincendo chi è già d’accordo con te, ma parlando anche a chi la pensa diversamente, a chi ha dubbi, a chi vota per paura o per rabbia. Trattare questi ultimi come ignoranti o manipolati è un errore tragico.

Eppure, i segnali erano già visibili da tempo le periferie urbane che votavano PCI e poi PDS sono passate a Salvini e oggi a Meloni, il Sud, da decenni laboratorio politico del malcontento, si è progressivamente allontanato dalla sinistra, il mondo del lavoro, un tempo pilastro dell’identità progressista, non si sente più rappresentato, i giovani, se votano, cercano risposte altrove, o si rifugiano nell’astensione.

Il problema non è solo politico, è culturale, è un’incapacità di leggere la trasformazione profonda del tessuto sociale italiano. Mentre il paese si impoveriva, invecchiava, si frammentava, la sinistra si rinchiudeva nei salotti televisivi, nei festival di nicchia, nei linguaggi dell’accademia, parlato troppo “sopra” il popolo e troppo poco “con” il popolo.

Oggi non bastano le operazioni di facciata, non basta cambiare leader, slogan, colore dei loghi, serve un ripensamento radicale, serve tornare nei territori non per fare presenza simbolica ma per ascoltare, per costruire reti sociali vere, per offrire soluzioni concrete. Servono nuovi quadri dirigenti, capaci e credibili, che non provengano solo dal mondo universitario o dalla politica professionale, ma anche dall’associazionismo, dal sindacato, dal lavoro di base,  serve un lessico popolare, che non significhi banalità, ma chiarezza.

Se la sinistra non si rigenera profondamente, è destinata a restare minoritaria per decenni, e non sarà colpa dell’ignoranza degli elettori, né della disinformazione, né delle fake news, sarà colpa sua, perché il tempo delle scuse è finito, e i cittadini italiani hanno già capito da un pezzo  che questa sinistra, così com’è, non serve più a nessuno.

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